ADRIANA POLVERONI

"TRA GETTATEZZA E POSSIBILITA', LA VITA NOVA DELL'ARTE"

 

Nel 2012, Carolyn Christov Bakargiev aveva messo al centro della sua dOCUMENTA The Brain in uno straniante dialogo con vari oggetti. Il cervello sembrava governare le relazioni con gli oggetti più disparati che gli stavano intorno: la vasca da bagno di Hitler, le nature morte di Giorgio Morandi, due sassi di Giuseppe Penone, antichissime statuine centroasiatiche di principesse battriane. Ma in realtà The Brainappariva sovrastato, come schiacciato e alla fine ben poco regolatore di queste relazioni. Gli oggetti prendevano corpo, un corpo e un’intensità inaspettati, attraverso rimandi storici, emotivi, erotici. E in filigrana si intuiva il tentativo di Christov-Bakargiev di conferire all’oggetto una sua fondatezza, direi ontologica, al di là della decodificazione e della determinazione valoriale che di questi poteva dare il cervello. 

Sono passati undici anni da quella dOCUMENTA, e gli oggetti hanno guadagnato sempre di più uno statuto autonomo, sovrastante. Non sono più l’oggetto-merce che abbiamo conosciuto tra Otto e Novecento e di cui filosofi, a cominciare da Marx, ci hanno suggerito metodi per smascherarne l’identità. Né sono più gli oggetti ai quali un gesto come quello di Duchamp ha conferito un altro status, non mortificandoli come merci, ma elevandoli da “cose” banali ad arte, restando tuttavia ostinatamente banali. E, con questo, come sappiamo, accendendo una potentissima miccia nel cuore del significato della parola arte.

Oggi l’oggetto è protagonista pervasivo e direi autoritario del nostro essere nel mondo. Tanto, che a volte, la relazione soggetto-oggetto sembra paradossalmente invertirsi. È l’oggetto a governare, a scandire il tempo e le attività della nostra vita, a volte annullandole in una concentrazione che definirei onnipotente, mai sperimentata prima. 

Se assumiamo questo come lo scenario entro cui ci muoviamo, il lavoro di Gino Sabatini Odoardi acquista una pregnanza ulteriore, oltre quelle già messe in luce da diversi e autorevoli critici e teorici dell’arte [1].   

Mi sembra che da sempre, da quando cioè ha cominciato ad esprimersi come artista, Gino Sabatini Odoardi abbia mostrato un’autentica ossessione per l’oggettualità, per l’essere dell’oggetto. E che abbia coltivato, decostruito, squassato, riconfigurato questa ossessione in diverse declinazioni e, come si conviene, a un artista, in diverse soluzioni visive.  

La lettura più lineare, e con la quale concordo, sostiene che con la termoformatura Sabatini Odoardi iberni l’oggetto e lo privi quindi della sua funzione. Si tratta di un’operazione rischiosa, perché tutto – come spiega l’artista – si gioca in un attimo e quasi violenta, visto che all’oggetto è sottratta la sua identità, oltre che la sua funzione, facendolo annegare e riaffiorare in un bianco assoluto. Ma il bianco, avverte l’artista – «apre al possibile». E in quest’ultimo, estremo orizzonte di possibilità si gioca il destino dell’oggetto di cui la termoformatura ha consumato l’abituale funzione semantica, rendendola inutile. 

Qual è, allora, il «possibile» di questo oggetto-non-oggetto percepibile solo nell’assolutezza del bianco? Anzitutto, vorrei rispondere a quella prima questione che avevo posto: l’odierna totalizzante pervasività e onnipotenza dell’oggetto. La sua soppressione, che Sabatini Odoardi realizza, mi appare un’operazione radicalmente liberatoria. Un gesto forte, che congela l’oggetto non solo nella sua identità, ma anche nel suo ruolo, in quella supposta catena di senso di cui dovrebbe far parte. Ovvero, nel mondo sovrabbondante e invasivo delle merci, popolato da oggetti e da quelli che non esiterei a definire iper-oggetti. 

Quell’oggetto lì non esiste più. Non è neanche una reliquia.

Forse ci sarà dell’altro. 

E se ci sarà dell’altro, questo “altro” apparterrà definitivamente al linguaggio, all’immaginario dell’arte. 

La termoformatura, quindi, non si risolve in un’operazione semplicemente tecnica che nega l’oggetto-merce o l’oggetto d’uso. Lo scarto decisivo sta nel farli riaffiorare con un’identità altra, decisa e conferita dall’artista. Questo, mi sembra, un contributo importante che Gino Sabatini Odoardi dà all’operatività e al senso dell’arte. Un contributo intellettualmente preciso. E radicale.   

Direi che l’artista rivela questo esiziale passaggio allorché afferma: «Ciò che mostro non ha bisogno della stampella della parola, è già di per sé del tutto eloquente e soprattutto univoco. Conferma che il contenuto è acquisibile solo per via visiva e non allude a rimandi»[2]. Siamo, appunto, nel linguaggio dell’arte, che non ha bisogno della parola, che è acquisibile solo per via visiva e che, aggiungiamo, non ha neanche bisogno della memoria di quell’oggetto. Siamo altrove. E la catena semantica dell’oggetto merce si è definitivamente spezzata. E quell’oggetto è diventato altra cosa. Si è aperto al possibile.    

Ma c’è un altro aspetto coinvolto in questo processo e stranamente spesso trascurato, sebbene l’artista lo dichiari con estrema sincerità, mettendosi a nudo. 

La termoformatura è l’immagine eloquente di un’altra sottrazione, avvenuta molto prima, prima del tutto. Una sottrazione che sembra non poter presagire neanche a un “possibile”. Il vuoto, l’assenza, il nulla che ne deriva ha molto a che fare con l’essere-nel-mondo di Gino Sabatini Odoardi, con la sua “gettatezza” nel mondo, per usare ancora una felice quanto drammatica definizione di Heidegger. «La mia indagine fin dal principio scaturisce dal disagio, dall’insofferenza, dal malumore di essere al mondo inconsapevolmente. Nessuno è in grado di fornire risposte dogmatiche e religiose che mi consolino, così come non ci sono verità che mi confortino. 

Generare tensioni, produrre equilibri instabili, rompere gli assesti, disallineare armonie. Tutto questo, incoraggia in me, nuove domande sul buio»[3]. Questo afferma Sabatini Odoardi in una recente intervista. E il buio, paradossalmente, sembra coincidere con il bianco dei suoi non-più oggetti, in un rimando di opposti che si parlano nella loro tautologica assolutezza. 

È quindi la consapevolezza del proprio essere-nel-mondo a muovere il gesto forte, azzerante dell’artista. Una consapevolezza che sembra annullare anche quell’ultima possibilità, direi salvifica, data invece all’oggetto nel far parte del linguaggio e della realtà dell’arte. Qui, invece, se c’è una    

una possibilità, questa rimane sconosciuta. Anzi, è la cifra dell’inconoscibile. Di un destino di cui non si conoscono gli esiti possibili. 

Sono consapevole, a mia volta, di aver delineato un ritratto di Gino Sabatini Odoardi e della sua arte profondamente venati da un pessimismo che non si può non definire “cosmico”.

Ma nella sua pratica artistica, in ciò che di più intimo, presumo, esista per Gino Sabatini Odoardi, anche qui lui “rompe l’assetto”, “produce un equilibrio instabile”. Lavora su un’immagine che sembra negare molto di quanto detto finora, non però la sua sottrazione da oggetto comune e la sua conseguente riconfigurazione nel territorio dell’arte.  

Del bicchiere, dell’affezione, della fedeltà a questo simbolo da parte di Sabatini Odoardi si è già detto, scritto moltissimo. Difficile aggiungere qualcosa di nuovo, se non il contagio della fascinazione per questo oggetto umile, che diviene altro, pur mantenendo la sua forma riconoscibile. Nella poetica e nel lavoro dell’artista, ritroviamo il bicchiere ovunque: disegnato – bellissimi disegni peraltro - termoformato, allineato, riempito, dritto, basculante. Non ci interessa stabilire il perché di questa profonda affezione, ognuno ha diritto al proprio totem. Personalmente nella reiterazione di questo oggetto umile, banale, che grazie all’arte acquista uno statuto non più tanto banale, mi interessa sottolineare due punti: il primo, la conferma dell’ossessione come cifra linguistica di Gino Sabatini Odoardi, un’attitudine ossessiva che non può non tradursi in una coerenza radicale, in estremo rigore. Qualità, traguardi non da poco. Secondo: la parziale matrice duchampiana, e dunque concettuale, del suo lavoro. Il bicchiere resta “banale”, non rinuncia al suo statuto di cosa – esattamente come voleva Duchamp in feroce polemica con la concezione sacrale dell’arte del suo tempo – ma diventa al tempo stesso oggetto d’arte, mantenendosi in un territorio di ambiguità in cui “le armonie si diseallineano”, per citare ancora l’artista, acquistando quindi una polisemia che prima non avevano. E anche l’umile bicchiere da osteria è spesso affogato per riaffiorare nel bianco assoluto, come altri oggetti manipolati dall’artista. Ma pienamente legittimato a schiudersi a un possibile. 

A una “vita nova” che solo l’arte può regalare. 

 

Roma, 12 marzo 2023

 

Note:

[1] Tra altri testi, si vedano gli scritti di Francesco Poli e di Massimo Carboni in Postumo al Nulla, Logos, Modena, 2010

[2] Prova Generale, Intervista a cura di Beatrice Audrito, pubblicata sulla rivista Espoarte #117 (Trimestre n.2 2022) pagg. 66-72

[3] Ibidem

 

* Testo critico pubblicato sul catalogo monografico Gino Sabatini Odoardi “Tra le pieghe del dubbio”, a cura di Claudio Libero Pisano e Adriana Polveroni, ed. Maretti, Imola (Bo) 2023, pp. 17-20.