CONTROINDICAZIONI
Intervista a cura di Matilde Martinetti
Ritieni che il tuo luogo di provenienza abbia influito in qualche modo sul tuo lavoro? Che lo abbia condizionato e lo condizioni?
No! A patto che si tratti il no come se fosse qualcosa.
Lavori solitamente sullo slittamento tra Significante e Significato creando volutamente ambiguità concettuale: cosa ti affascina di questa scelta stridente? Ritieni che sia la formula più efficace per stimolare la coscienza critica dello spettatore?
Il mio lavoro oscilla sull’”orlo” di più condizioni perché è il mondo stesso che ci dondola sopra. No c’è la messa in opera di una formula. Non esiste una strategia che serve a regolare stimolazioni prestabilite. Quando mi relaziono con il mondo, il primo spettatore sono io.
Se non sbaglio tu stesso curi la fotografia dei tuoi lavori. Data la qualità delle immagini parlerei di una sorta di arte nell’arte: la consideri parte integrante del tuo lavoro e della sua processualità, un passaggio da cui non prescindere, una documentazione che ha lo stesso peso dei disegni preparatori?
Sì, è proprio così. Curo in maniera ossessiva ogni piccolo dettaglio del mio lavoro. Foto comprese. Tra le pagine dei significanti possibili non tra/lascio nulla al caso. La foto è una fase successiva al disegno preparatorio a cui non posso prescindere. La definirei una sorta di trasfigurazione della figurazione.
C’è un’opera o una serie di opere che ritieni ti rappresenti in maniera particolare?
Sì, quella che devo ancora pensare.
Si parla spesso di difficoltà di comprensione dell’arte contemporanea. Come ti poni di fronte a questo dilemma? Pensi mai alla difficoltà che può avere la gente nel recepire i tuoi lavori? Il margine di potenziale fraintendimento ed incomprensione che lasci e/o ricerchi, ha uno scopo? O è piuttosto una condizione necessaria dato che non si è a conoscenza di verità? (premesso: ricerchi verità o ritieni che non si possano raggiungere?)
Innanzitutto non riesco a capire perché spesso si parli di difficoltà di comprensione solo nei riguardi dell’arte contemporanea, mentre diamo per scontato che un artista come Piero della Francesca sia accessibile a tutti.
Si ha sempre la pretesa di voler capire tutto e subito, senza sforzi, senza impegno o dispendio di energie, magari seduti davanti ad un televisore su una poltrona a mangiare patatine. E’ tutto questo senza - una benché minima - competenza sulla propria incompetenza. Quasi nessuno è disposto a capire, scavare o solo semplicemente a “vedere”; ormai ci siamo fermati sul primo sguardo che tutto brucia e consuma superficialmente.
Mi infastidisce questa continua esigenza di riportare tutto al pratico, al convenzionale, al comprensibile. La vita è comprensibile? No! Allora occupiamoci della vita e finiamola con i discorsi sulla morale.
La grande arte è sempre stata sottilmente incomunicabile, senza mai svendersi a nessuno, né tanto meno allo spettatore distratto dei nostri giorni. Avvicinarsi all’incomprensibile significa avvicinarsi alla vita.
Il mio lavoro? Forse cerca di “sintonizzarsi” o meglio di “sincronizzarsi” con questo buio della vita e solo successivamente con i problemi ad essa connessi.
In cosa esattamente ti senti affine a Carmelo Bene?
Nella forte intransigenza fisiologica nei confronti di un linguaggio falso e ipocritamente mediato da disfunzioni guaste.
A parte il bicchiere come evidente trait d’union, ci sono dei temi che ricorrono spesso nella tua produzione: il concetto di sacro, di postumo (vita/morte), di luogo comune. Riconsiderando il tuo lavoro a posteriori, ritieni che si possa parlare di “parole chiave” o pensi piuttosto che i tuoi lavori siano svincolati da una precisa linea guida?
Esiste una linea guida perché esiste un’idea guida. Questo è l’unico filo rosso che accomuna tutto il mio lavoro.
Sei molto disponibile verso giovani critici e curatori, e questo è un atteggiamento non facilmente riscontrabile. Che rapporto hai con la critica in generale? Pensi che il suo compito sia quello di predisporre alla conoscenza ed educare il pubblico?
E’ vero che sono disponibile verso i giovani critici (preferibilmente coetanei), però è pur vero che non lo sono sempre con tutti. L’empatia gioca un ruolo fondamentale in questo senso.
Per quanto riguarda la critica in generale, forse (visti i suoi ultimi fallimentari risultati raggiunti), il suo compito dovrebbe essere quello di cominciare ad allontanare il pubblico dall’arte più che quello di cercare di avvicinarlo. Solo così riusciremmo a destare un minimo interesse da parte di un pubblico distratto e mediocre dei nostri giorni a cui io riservo pochissima fiducia, purtroppo.
Sostieni che i tuoi maestri siano stati Kounellis e Mauri: cosa esattamente ritieni ti abbiano insegnato?
Mi hanno insegnato a stare davanti ad un quadro mentre gli si guarda la nuca.
Perché la scelta di ritirarti da Roma dopo tanti anni? Cosa ha comportato?
Nulla, perché ho sempre desiderato stare al posto giusto al momento sbagliato.
Un appunto sul tuo libro e perché il titolo “Controindicazioni” (questa mi sembra doverosa!)
Controindicazioni? Non so risponderti se solo voglio mantenere un pizzico d’obiettività al riguardo.
I tuoi ultimi lavori presentano un passaggio dalla sfida delle leggi gravitazionali e dell’ovvietà - sembri risolvere con naturalezza paradossi ed impossibilità - ad una forte connotazione sociale: si può parlare di una ulteriore fase di sviluppo della tua ricerca? C’è stato un elemento scatenante che ha indotto il passaggio o è stato piuttosto un percorso spontaneo, non meditato?
Non lo so se si può parlare di un’ulteriore fase di sviluppo della mia ricerca. Di certo so che sono me stesso sia quando guardo le stelle e sia quando parlo di politica.
Ti definiresti un materialista?
Sono un materialista con la testa sempre fra le nuvole.
Pensi che l’arte possa o debba cambiare il mondo e che l’artista abbia delle responsabilità morali nei confronti di esso?
Un tempo il messaggio dell’arte aveva conseguenze importanti sulla realtà, basti pensare agli insulti rivolti da Dumas al rivoluzionario Courbet alla fine dell’800. Oggi non suscita sicuramente tutto quel nostalgico clamore, ma ciononostante ritengo che sia l’unico modo per fomentare quel modello di dissenso nei confronti di una società fondata su principi totalmente distorti.
E’ difficile pensare che l’arte possa cambiare il mondo nel senso meno poetico del termine (anche i dadaisti si erano illusi di riuscirvi). Però ho voglia di credere molto di più sulle infinite possibilità che l’arte ha di indicare una rotta sbagliata del mondo. Dovrebbe avere la stessa funzione che ha lo specchio con cui ci “relazioniamo” o meglio “riflettiamo” la mattina mentre ci laviamo il viso.
Di conseguenza l’artista è colui che (essendo dotato di quella patologia creo/indicativa) dovrebbe permettere la focalizzazione caotica di quella determinata rotta.
Come dice Fabio Mauri metti l’intero mondo in un bicchiere. La fascinazione che nutri verso il bicchiere prescinde dal contenuto o è quello che la legittima? Fino a che punto sei affascinato dal bicchiere come contenitore al di là del suo contenuto? Fino a che punto il contenitore non è strumentale al contenuto?
Penso che la scelta di un supporto legittimi sempre se stesso a prescindere dall’intervento. Poi non credo che possa esistere un’idea di contenuto senza un concetto chiaro che la possa contenere. Nel mio caso ho sempre inteso il bicchiere come una sorta di pagina trasparente dove vomitare il mondo senza mai trascurarne la funzione.
La tua scelta ricade sempre sullo stesso bicchiere da cantina. Perché questa tipologia e non altre? Ritengo che le sue caratteristiche (semplicità, quotidianità, familiarità) creino, rispetto ai contenuti di cui lo riempi, maggiore attrito di significati. Non essendo solitamente investito di ulteriori funzioni a parte quella di fare da contenitore, mi sembra che riesca a far stridere con maggiore forza lo scarto tra contenitore e contenuto. E’ anche a questo che tendi? Ci sono delle ragioni della tua scelta o è semplicemente immotivata?
Ci sono delle ragioni che riflettono un sociale più vicino al mio modo di sentire la vita.
Il risultato dei tuoi lavori è seriale (benché gli elementi si somiglino ma non siano identici), razionale, ordinato, calcolato. Si vede la differenza tra il rigore geometrico del lavoro compiuto e la progettualità istintiva della fase preparatoria. Una sorta di passaggio dal caos all’ordine. Le caratteristiche sopra elencate sono obiettivi cui tendi, e perché?
Ho sempre inteso la fase progettuale come una sorta di iper-riflessione della confusione. Caricare l’intuizione primaria di dubbi, incertezze ed instabilità è sempre stato per me un punto di partenza a cui non posso prescindere. E’ un processo così falsamente comprensibile che difficilmente riesco a gestire se non con la formula severa del rigore seriale.
Ritieni che oggi ci sia bisogno di silenzio e ritieni il silenzio una presa di coscienza. Le tue opere - soprattutto le ultime - rimandano frequentemente a parole (mass-mediatiche). Pensi di aver trovato una mediazione o un compromesso per parlare in maniera silenziosa?
La vita stessa è un sistema complesso di compromessi. Mc Luan ha dovuto scrivere un libro per dire che i libri non servono a nulla. Ma non è questo problema, il vero problema è cosa dire e perché bisogna per forza dire. Si dicono continuamente parole a vanvera senza senso. E’ qualora il senso esistesse, questo è sempre gestito da mercanti di teschi patrocinati da media/mediocri senza scrupoli. Sono pochissimi quelli che parlano, molti dicono solo parole. Si vive nel limbo dei media (neanche Orson Welles e Sidney Lumet con i loro rispettivi “Poteri” cinematografici sono riusciti nell’impresa); quale falsa presunzione potrei avere io di riuscirvi? Anch’io parlo, parlo, parlo con te, adesso, mentre desidererei che questa emissione d’aria orale collassasse in una scatola di marmo. Malgrado ciò ho bisogno di gettarmi in qualsiasi acqua putrida per non bagnarmi.
Roma, Ottobre 2003
* Intervista a cura di Matilde Martinetti tenutasi a Rome nell'ottobre 2003 e pubblicata sui siti on-line di Exibart.it (Roma, 2003) e Avision.it (Bassano del Grappa - Vicenza) 2004.