PIEGHE E POLVERE
Intervista a cura di Maria Savarese
Se dovessi dare una definizione di Napoli in una sola parola, quale sceglieresti e perché?
Viva e rovinata allo stesso tempo. È la terra delle cose fatte fino ad un certo punto. La produttività può essere fatale come l'inerzia. Tutto è bello, orrendo e in disordine, niente funziona bene tranne il passato. Ciò nonostante Napoli è una grande capitale, ed ha una stupefacente capacità di resistere alla paccottiglia kitsch da cui è oberata, una straordinaria possibilità di essere continuamente altro rispetto agli insopportabili stereotipi che la affliggono. Affermava Goethe nel 1817: “A Napoli ognuno vive in una inebriata dimenticanza di sé. Accade lo stesso anche per me. Mi riconosco appena e mi sembra di essere del tutto un altro uomo”.
I tuoi maestri: sei stato per anni accanto a Fabio Mauri e per un breve periodo a Jannis Kounellis. Quale insegnamento ti hanno lasciato, per te imprescindibile nel tuo fare arte?
In Fabio Mauri ho appreso la disciplina di coniugare etica ed estetica. Ho capito l’importanza e la pericolosità del linguaggio. Con lui ho imparato a penetrare il mondo con una consapevolezza diversa. Mi emozionavo semplicemente vederlo spostare gli oggetti sul tavolo. ‘Guardarlo’ ‘guardare’ è stata una pratica che ho affinato segretamente, con una perseveranza ossessiva. “Bisogna farsi sedurre dalle cose - mi sussurrava a bassa voce - ”. Nel suo studio ho vissuto nell’anticamera di uno dei mondi possibili. Un artista pre/tutto dalle intuizioni geniali ed altamente intellettuali. E’ stato il maestro più importante. Ho avuto la grande fortuna di collaborare con lui diversi anni, precisamente dal 1995 al 2002, come studente, performer ed infine assistente. Ricordo di aver preso appunti (di nascosto) anche quando - per telefono - riferiva alla domestica la lista delle cose da comprare per la casa. L’ho salutato in privato facendogli una promessa 21 giorni prima che morisse, e cioè che avrei continuato a prendere appunti anche quando (un giorno) sarebbe stato zitto - per sempre.
In Jannis Kounellis ho appreso la sua “dolce, bestiale, classicità”. Ho assimilato il distacco culturale dalla volontà di rappresentazione. Ho compreso l’appropriazione di uno spazio fisico e vitale. Ho assimilato l’incontro dialettico tra classico e contemporaneo. L’importanza dell’ombra. La sublimazione di una mensola. La drammaturgica teatralità. “Non si può insegnare a dipingere un quadro - mi diceva - ma si può insegnare a stare di fronte ad un quadro. Leggerlo storicamente”. Poi continuava “Bisogna cercare di vedere il lavoro da dentro, di non accontentarsi della superficie, ma cercare di scoprire le ragioni profonde che stanno dietro le cose”. Sono stato suo allievo in un seminario-laboratorio nel 1998 curato da Sergio Risaliti. Anche questo è stato un incontro fondamentale e determinante nel mio fare arte.
Quali sono i tuoi riferimenti, letterari, artistici e teatrali? Se dovessi indicarmi un artista visivo e del teatro di ricerca, o un letterato al quale il tuo pensiero è più affine, che nome faresti?
Ho amato e continuo ad amare - per ragioni diverse ma nello stesso contingenti - figure come Kasimir Malevič, Bertrand Russel, Ludwig Wittgenstein, George Bataille e Carmelo Bene.
Malevič ha promosso una radicale depurazione del linguaggio formale per un'abolizione della stessa pittura. Ha revocato il segno e l'immagine alla ricerca di un azzeramento totale in uno spazio che non risponde ad alcuna logica né ad alcuna regola, almeno non a quelle del mondo reale.
Russell ha favorito la logica moderna, lo scetticismo, il dubbio, l’antiteismo e non solo, ha incoraggiato un pensiero libero, sovversivo e rivoluzionario.
Wittgenstein ha tracciato un limite all’espressione dei pensieri, studiando la forma logica del linguaggio, ma sapendo tuttavia che tale limite non può essere detto: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro - affermava - e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
Bataille ha incoraggiato con la sua consueta radicalità le proprie ossessioni: il gioco, il sacro, l’erotismo, la morte, l’estasi, la sovranità. Ha venerato l’indefinibile, ciò che il pensiero non può concepire, constatando l’assurdità del mondo e riconoscendo l’impossibilità di conoscere il mondo.
In Bene ho appreso come e perché contravvenire tutto l’acquisito del mondo, rigorosamente “a boccaperta”. Carmelo lo conobbi personalmente il 25 Gennaio 1996 all’Aquila (in quei giorni portava in scena l’Amlet Suite). Poche parole, intense, ma non senza ustioni. Un genio unico, immenso ed inconsolabile. Ecco, questi sono i miei riferimenti.
Nelle tue opere, ricorrono spesso dei simboli, arcaici, sacri e profani, consumistici, giustapposti, che creano dei cortocircuiti visivi e semantici, lo spazio che destini all’interpretazione delle stesse è ampio. Rimandano a qualcosa che è sempre oltre il rappresentato, attui un’operazione di nascondimento/disvelamento del significato. Mediante la tecnica della termoformatura disveli un significato altro dello stesso oggetto/soggetto della tua azione. Perché utilizzi questa tecnica?
La termoformatura mi da quella sedativa e momentanea illusione di consegnarsi ad un fantasma postumo in maniera indolore. Essa ha un meccanismo dal fascino irreversibile. Ha la grande proprietà di “freddare” l’oggetto, dandogli quella temporanea possibilità dopo l’inevitabile. Vivo la seduzione dell’attimo e la consapevolezza dell’imminente disfatta. E’ una delle mie tante “operazioni concepite postume”, dove tutto quanto è avvenire è già passato, che non è un cominciamento di qualcosa, ma è già l’immediato dopo la fine.
In definitiva, è solo la proiezione di un tormento ibernato ed anestetizzato e non la momentanea calcomania del mondo esterno.
Come ci sei arrivato, quali sono stati i passaggi intermedi che hanno poi portato all’utilizzo della stessa?
I miei primi esperimenti mediante il “sottovuoto” risalgono ai primi anni ’90. In quegli anni usavo una plastica sottile e trasparente, mentre oggi (dopo anni di studio) sono giunto a questo nuovo materiale plastico, non sottile e non trasparente chiamato polistirene attraverso la termoformatura appunto, i cui esemplari sono stati esposti per la prima volta ad “Artissima 12” a Torino, nel Novembre 2005 con un catalogo “The White Album” curato da Luca Beatrice.
Puoi spiegarmi in cosa consiste il procedimento?
Il processo della “termoformatura” è una variazione più complessa del precedente “sottovuoto” che mi consente di poter “ibernare” con maggiore solidità ed azzeramento cromatico un oggetto mediante più fasi: riscaldamento-sottovuoto-raffreddamento.
Sei sempre soddisfatto del risultato che ottieni? L’idea che avevi in mente, coincide sempre con l’opera finale o ci sono degli scarti e degli imprevisti nella realizzazione delle opere, che magari ti spingono ad apprezzare qualcosa di diverso da quello che avevi in mente?
Non sono sempre soddisfatto dell’esito finale, in quel caso ripeto l’operazione. L’idea iniziale deve corrispondere fedelmente alla realizzazione ultima, altrimenti non contemplo risultati casuali.
Nelle tue opere, da un lato è rintracciabile una raffinatezza ed eleganza formale, una sensibilità estetica di evidente matrice classica, dall’altro, una tematica provocatoria e a tratti dissacrante, il cui obiettivo è insinuare il dubbio. Spiegami questo tuo bisogno di rompere gli equilibri, in un continuo rimando senza risposta.
Da sempre la mia indagine preleva motivazioni dal disagio, dall’insofferenza, dal malumore di essere al mondo inconsapevolmente. Due sono le cose di cui non ti insegnano nulla a scuola: la nascita e la morte. E’ proprio assurdo. La morte è inaccettabile e tutto il mio lavoro parte da lì, è come se la morte fosse un difetto fondamentale del mondo. Non puoi segnarla sull’agenda. Ti guardi intorno, la polvere si deposita e ti riguardi intorno con un’inquietudine infinita. Non ci sono risposte dogmatiche e religiose che mi consolano, così come non ci sono verità che mi confortano. Rompere gli equilibri è l’unico modo per porsi seriamente delle domande senza la pretesa di avere risposte.
Quale ruolo ha l’inconscio nella scelta dei soggetti?
Non ne ha.
Il bianco e il nero sono i protagonisti cromatici dei tuoi lavori, insieme a qualche dettaglio in rosso; come mai prediligi questi colori?
Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto o indiretto sulla mente umana. Il nero promuove la notte e non piange, il bianco è sottrazione ed apre al possibile, il rosso è l’incantesimo dell’atto.
Un corpus di opere che presenti anche in quest’occasione, ha per oggetto il bicchiere. Perché scegli quest’oggetto, reiterandolo ed analizzandone le proprietà e le simbologie in molteplici forme diverse?
Non tutti i bicchieri, ma quel particolare bicchiere. La mia debolezza - sin da quando avevo 10 anni - è caduta sul pavimento di vetro di quel comune bicchiere da cantina per delle ragioni che riflettono un sociale più vicino al mio modo di sentire la vita. “La messa in scena di un’ossessione” lo ha definito Angela Vettese, sono d’accordo con lei. A questo enigmatico oggetto ho delegato gran parte di tutte le mie inquietudini. Una sorta di pagina trasparente dove vomitare il mondo senza mai trascurarne la funzione. Lo considero il perimetro svizzero dell’anti-tutto. E’ lo spazio - partigiano - povero entro cui poter convivere senza dogmi o ideologie, significante vuoto della resistenza.
Ritorni spesso nel tuo lavoro sul concetto di pieghe, che valore hanno per te?
Aldilà di significanti - non trascurabili - legati alla mia infanzia (vengo da una famiglia di tappezzieri di conseguenza ho sempre avuto residenza stabile tra le stoffe), trovo che la metafora della “piega” costituisca un'intrigante espressione di “accordi” come a ragione sostiene Deleuze. La piega si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, comporsi in una nuova armonia. Esso cela tracce e segni che coincidono con gli elementi essenziali della percezione, quali luce/ombra, bianco/nero, interno/esterno. Panneggi che nelle loro infinite combinazioni, raccontano gli innumerevoli risvolti della vita, dove niente è chiaro e rivelato.
Quest’ultimo progetto concepito per Napoli si articola fra abilità tecnica ed emozionalità pura. Perfetto connubio tra componente mentale ed emozionale. Perché la tua scelta di “omaggiare” gli Uomini Illustri nel Cimitero Monumentale della città? Ricordiamo quelle quattro ore intense trascorse insieme in quel magico luogo della memoria…
Questo lavoro è una riflessione sull’identità bugiarda di tutto ciò che è postumo. Malgrado formule momentanee, bastano poche generazioni (tre/quattro) per cadere nella prescrizione dell'oblio. E’ questo sicuramente non mi lascia indifferente. La memoria non è ciò che ricordiamo, ma ciò che ci ricorda.
Grandi uomini “illustri”, che un tempo fecero grande la città di Napoli, sono divenuti ad un tratto anonimi. Ora dormono inermi e dimenticati in un luogo che non li merita.
La mia azione è stata principalmente quella di drammatizzare un riscatto per sottrarli a quel “nulla” a cui erano destinati. Desideravo, carezza dopo carezza, restituire dignità a corpi abbandonati e ingiustamente vilipesi.
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere” affermava José Saramago.
Ti confronti nella tua ricerca con temi fondamentali come la morte, l’oblio, l’obsolescenza, la memoria. Quale valore ha aggiunto alle tue precedenti riflessioni in merito l’esperienza napoletana? Questi tessuti preparati con cura, ricamati e inamidati, utilizzati per accarezzare, pulire, raccogliere e conservare memoria, sono stati trasformati in opere d’arte ed esposti…
Per dirla con Samuel Johnson la vera arte della memoria è l’Attenzione.
Durante questi mesi di condivisione progettuale e nei nostri scambi di idee, a un certo punto hai detto che le reliquie di cotone alla fine di quella giornata erano “sporche di senso”…e che ti sentivi “meglio, sollevato”…spiegami...
Non saprei risponderti con precisione. So solo di aver fatto una buona azione e di averla imparata a memoria.
La tua ricerca sembra ruotare intorno all’azzeramento di tutte le certezze ideologiche e religiose, una ricognizione lucida ed analitica della “fine dei grandi racconti”. L’arte può essere vista come un grande racconto anch’essa? Qual è la sua funzione?
L’arte è l’ultima risposta prima del precipizio. L’ultima magra consolazione prima del vuoto inconsolabile. Ha una prerogativa curiosa, disegna a matita sulla nebbia, senza dare risposte apparenti. Qual è la sua funzione? Prendere coscienza dell’affascinante verità del “non-sapere” come unica risposta “degna” all’enigma del mondo.
Le termoformature, congelano l’oggetto, bloccando per sempre la transitorietà propria della dinamica consumistica di cui lo stesso è protagonista. La tua ricerca nei luoghi di sepoltura, è come se fosse rivolta a fissare il focus sulla memoria, un tentativo di sottrarre all’oblio, di bloccare lo scorrere del tempo. E’ in buona sostanza l’indagine sul tempo il file-rouge che lega i due filoni della tua ricerca a mio parere, è così?
Sì, è così.
Napoli, settembre 2015
* Intervista a cura di Maria Savarese e pubblicata sul pieghevole in occasione della mostra personale "Pieghe e Polvere", Museo PAN, Napoli, settembre 2015.