PROVA GENERALE
Intervista a cura di Beatrice Audrito
Con la mostra Prova generale Senza Titolo, a cura di Enzo De Leonibus, presso il Museo Laboratorio Ex Manifattura Tabacchi di Città Sant’Angelo (PE), Gino Sabatini Odoardi espone un lavoro inedito di cui aveva da tempo l’esigenza di dare corpo. Uno spazio fisico dove presentare finalmente la complessa installazione progettata nel 2017 per il Drawing Lab del Centre d’Art dédié au dessin contemporain di Parigi, anticipando con questa “prova generale” ulteriori declinazioni dell'opera.
Com’è nato questo progetto e com’è concepita l’installazione esposta al Museo Laboratorio?
Il progetto è nato come conseguenza di un maturato interesse per il panneggio e precisamente dalla personale alla Gowen Contemporary di Ginevra nel 2013. Questa idea, in qualche modo, ne sviluppa ulteriori coniugazioni.
Il lavoro si sviluppa medianti reticolati di linee in acciaio, delineati da carrucole che sospendono a mezz’aria quattordici secchi in metallo. Sul bordo dei singoli recipienti, si modellano altrettanti drappi in polistirene bianchi termoformati. L’intera installazione si libra come in un gioco tra forma e segno, tratteggiando una piccola foresta monocroma dove il dispiegamento è ratificato tra cielo e terra.
La tensione generata da elementi sospesi o da oggetti pericolosamente inclinati verso il basso ha un grande peso nel tuo lavoro. Molte tue opere si trovano spesso in situazioni di equilibrio precario. Penso a Decentrato, la grande installazione che hai presentato nel 2016 in occasione della tua mostra personale alla Whitelight Art Gallery di Milano, nello spazio di Copernico, ma anche a Senza titolo l’installazione nello Spazio Alviani con i drappi appesi, come pure in questa installazione esposta al Museo Laboratorio. Perché questa scelta in bilico?
La mia indagine fin dal principio scaturisce dal disagio, dall’insofferenza, dal malumore di essere al mondo inconsapevolmente. Neanche a scuola viene insegnato nulla circa la nascita e la morte e questo lo trovo assurdo. Tutto il mio lavoro parte dall’inaccettabilità della fine, è come se la morte fosse un difetto fondamentale del mondo. Non puoi segnarla sull’agenda. Basta un attimo, la polvere si deposita, ti guardi intorno con un’inquietudine infinita. Nessuno è in grado di fornire risposte dogmatiche e religiose che mi consolino, così come non ci sono verità che mi confortino. Generare tensioni, produrre equilibri instabili, rompere gli assesti, disallineare armonie. Tutto questo, incoraggia in me, nuove domande sul buio.
Un altro elemento molto presente nelle tue opere è la piega, spesso declinata nel drappo o nel panneggio. Che valore ha per te questo elemento?
È inevitabile un richiamo alla mia infanzia (vengo da una famiglia di tappezzieri e di conseguenza ho sempre avuto una certa familiarità con le stoffe). Nel mio lavoro, la metafora della piega risponde a quell’intrigante espressione di “accordi” come a ragione sosteneva Deleuze. Questa magia composta di senso ha un valore enigmatico che si replica all’infinito nel suo illimitato riprodursi, stratificarsi, costituirsi. Labirinti nomadi senza finestre celano nuove armonie in cui ogni azione è un’azione interna, piega nella piega, ombra nell’ombra. Ogni lieve ondulazione coagulata sfugge alla rigida scala diatonica della forma e ogni panneggio è una linea barocca che cela tracce e segni che coincidono con gli elementi essenziali della percezione (luce/ombra, bianco/nero, interno/esterno). Drappi, che nelle loro vaste combinazioni, raccontano le innumerevoli smagliature della vita, dove niente è chiaro e rivelato. La plasticità dell’ombra nascosta è sperimentabile, così come gli ingressi multipli diretti all’anticamera del pensiero muto. È qui che ripiego, da astigmatico, il mio sguardo ateo sul mondo.
La maggior parte delle tue opere sono realizzate con il procedimento della “Termoformatura in polistirene”, una tecnica particolare che appartiene al mondo dell’industria più che al mondo dell’arte. Quando l’hai scoperta e come l’hai adattata alle tue esigenze creative? Cosa ti affascina di questa tecnica?
Nei primi anni ‘90, prima di arrivare alla termoformatura, ho sperimentato la tecnica del “sottovuoto”, usando una plastica sottile e trasparente. La “termoformatura” non è altro che una variazione più complessa del “sottovuoto” che mi ha consentito di poter “ibernare” con maggiore solidità ed azzeramento cromatico gli oggetti attraverso più fasi: riscaldamento-sottovuoto-raffreddamento. I primi lavori in termoformatura sono del 2004, esposti per la prima volta ad “Artissima 12” a Torino nel Novembre 2005 con un catalogo monografico (The White Album) curato da Luca Beatrice.
La termoformatura mi da quella sedativa e momentanea illusione di consegnarsi ad un fantasma postumo in maniera indolore. Essa, ha un meccanismo dal fascino irreversibile, devitalizza l’oggetto, dandogli quella temporanea possibilità dopo l’inevitabile. Vivo la seduzione dell’attimo, conscio del conseguente disfacimento.
Nella termoformatura contemplo l’idea che tutto quanto è avvenire è già passato, che non è il principio di qualcosa, ma è già l’istante dopo la fine.
È la proiezione di un tormento ibernato ed anestetizzato e non la momentanea calcomania del mondo esterno.
Nei tuoi lavori sono presenti spesso media diversi come il disegno, la pittura, e la scultura (presente con la termoformatura), che poi confluiscono in un unico output dal cromatismo molto uniforme. A dominare la scena è sempre il bianco. Quali sono le motivazioni di questa scelta? Come metti in relazione i media tra loro?
La modalità di combinare più media tra loro è sicuramente favorita dalla mia formazione legata alla pittura. Non contemplo una forma nel suo insieme se non dal punto di vista esclusivamente pittorico. Ciò che mi interessa è il quadro nel suo insieme. Sono costantemente sedotto dal gioco che si mobilita tra le forme, tra le linee, tra le ombre. Le relazioni sono legate da combinazioni intrinseche. La simbologia dell’oggetto, spesso, è solo cornice. La scelta del bianco è congiunta alla sottrazione perché apre al possibile.
La tua ricerca affronta tematiche filosofiche universali di grande attualità come il concetto di tempo, lo spazio, la memoria. Cosa ti spinge a questa tua indagine?
Inseguo costantemente quel “niente” oltre il tempo, lo spazio, la memoria, come istante sovrano. Tendo ostinatamente a quel “non sapere” batailliano. Rincorro tentativi di accostamento all’abisso dell’incomprensibile, per avvicinarmi all’enigma dell’esistenza, purtuttavia, senza mai riuscirci.
Un corpus di opere ha per oggetto il bicchiere. Perché la scelta di quest’oggetto?
Perché quel comune bicchiere da cantina riflette un sociale più vicino al mio modo di sentire la vita. Una dimensione parallela trasparente dove far convogliare il mondo senza mai trascurarne la funzione. Ad esso, ho delegato gran parte di tutte le mie inquietudini. Lo considero il perimetro svizzero dell’anti tutto, lo spazio - partigiano - povero entro cui poter convivere senza dogmi o ideologie, significante vuoto della resistenza. Angela Vettese lo ha definito “La messa in scena di un’ossessione”, visione nella quale mi riconosco.
In che direzione va oggi la tua ricerca?
È difficile risponderti, e poi il termine “ricerca” mi fa sempre un po’ sorridere. Intanto parto dal presupposto che non “troverò” mai nulla. Solo scontato questo bisticcio terminologico - e poi non così scontato - posso iniziare a parlare di percorsi. Un viaggio strano il mio, un po’ come Thomas Eliot, ogni volta che parto mi sembra di arrivare al punto dal quale mi sono allontanato e di conoscere quel luogo per la prima volta.
Definisci il tuo lavoro con una frase.
Postumo al nulla.
Che progetti hai per il futuro?
Inaugurerò a giugno una personale dal titolo “Nel cilindro del dubbio” a cura di Beatrice Audrito nel Fortino Leopoldo a Forte dei Marmi. In quell’occasione presenterò il mio ultimo catalogo monografico. Nella seconda metà dell’anno è prevista inoltre una mostra personale al Museo MACA di Frosinone a cura di Alberto Dambruoso.
Torino, marzo 2022
* Intervista a cura di Beatrice Audrito e pubblicata sulla rivista Espoarte #117 (Trimestre n.2 2022) pagg. 66-72.