POSTUMO AL NULLA
Intervista a cura di Angelandreina Rorro
“Quanto può dirsi si può dir chiaro; e di ciò di cui non si può parlare si deve tacere… la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva” (Wittgenstein dal Tractatus)
Caro Gino, questo catalogo che arriva “nel mezzo del cammino”, in un tempo di bilanci, di assestamenti e di nuovi progetti è l’occasione per conoscerti e per farti conoscere meglio. Ho pensato quindi di iniziare questa nostra conversazione dalle tue origini. Parlami del piccolo Gino, dei suoi sogni e dei suoi bisogni, di quando ha cominciato a sentire di volersi esprimere con i mezzi dell’arte.
Non ricordo chi sostenne che le origini non sono mai belle e che la vera bellezza è alla fine delle cose. Allora, dalla “selva oscura” inizio dalle cose non belle, cioè dalla nascita. Forse ho iniziato subito, la mia prima forma d’espressione è stato il silenzio. C'è voluto l’agguato presuntuoso di un forcipe per sradicarmi dall’altrove. Appena venuto alla luce - mi ricordano in famiglia - nessun pianto di sana e robusta costituzione mi ha accompagnato uscendo dall’amniotico. Sono stato subito consegnato al buio del pre-coma e solo una pronta rianimazione mi ha riportato nel chiacchierato rumore del mondo. Nascere non è stato un granché. Dunque, il silenzio è stato il mio primo svezzamento espressivo.
Negli anni successivi, la memoria mi riporta al cestino dell’asilo pieno di fogli a quadretti e matite colorate. Non ricordo di aver mai sacrificato un solo cm quadrato di quel cestino per una merendina. Il cibo mi faceva schifo. Su quelle pagine sento ancora l’odore indelebile del sabato pomeriggio, giorno in cui, con la famiglia, si andava nella casa di campagna a passare il week end.
Ho sentito subito il bisogno di esprimermi con qualsiasi mezzo, spesso anche non convenzionale. Quando facevo pipì all’aperto, amavo disegnare forme bizzarre sulla terra battuta. Questa pratica mi ha divertito per molti anni. Sarei stato il figlio prediletto di un Pollock o del più concettuale Manzoni.
Nello specifico, due sono stati i momenti decisivi per quella che volgarmente potrei chiamare vocazione artistica. Il primo è stato quando a 10 anni rimasi colpito dallo sceneggiato televisivo “Ligabue”, biografia sul pittore naif di Gualtieri (interpretato dal geniale Flavio Bucci - che in seguito conobbi di persona). Ho capito subito che in quell’artista dannato ci fosse un’autenticità che non riscontravo tra le persone comuni. Due anni dopo conobbi Antonio Capone (pittore dotatissimo nonché amico di famiglia), era il 1980. Ricordo benissimo il suo studio, una casetta di campagna di pochissimi metri quadri. In quella stanza ho capito immediatamente cosa sarebbe stata la mia vita, o meglio, cosa la vita avrebbe preteso da me. Cominciai a disegnare con Antonio il giorno dopo che ci siamo conosciuti. Ricordo ancora la chiave di quello studiolo, un chiavistello in ferro di quasi 20 cm che in seguito mi regalò come ricordo. Mi ha insegnato tutti i segreti della pittura. Attraverso libri e cataloghi mi fece conoscere i pittori surrealisti, fui scosso da tre figure: Dalì, Magritte e De Chirico. Ne rimasi influenzato per un lungo periodo. Insomma, passare dai fogli a quadretti ai quadri è stato piuttosto automatico.
Educare viene dal latino e-ducere: tirar fuori, far uscire. Quanto i tuoi studi e la tua formazione sono intervenuti nel tirar fuori e nel farti diventare ciò che sei?
L’unico periodo in cui la mia educazione si è interrotta è stato quando andavo a scuola. E parlo della scuola dell’obbligo (quale obbligo poi?!).
La mia prima educazione didattica è stato un vero disastro. Fino alla scuola media la mia curiosità è stata continuamente minata dalla mediocrità dei miei insegnanti (chiamarli tali mi innervosisce ancora oggi). Bertrand Russel sosteneva che il ruolo degli insegnanti è fondamentale per il progresso di una qualsiasi società, ma non è certo ai miei primi ex insegnanti che si riferiva. Successivamente il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti hanno riscattato fortunatamente la cattiva partenza educativa. In quegli ambienti ho avuto la fortuna di incontrare validi insegnanti e non solo. Soprattutto tra le aule dell'Accademia ho riscontrato un clima culturale particolarmente interessante. Molte le novità, alcune insospettabili. Poter condividere spazi e cose con artisti, critici e storici del mondo dell’arte non è una pratica che si può riscontrare ovunque.
Sostengo che l’importanza dei luoghi in cui le cose accadono è formazione! E quando parlo di incontri non intendo solo tra persone. Gilles Deleuze affermava che gli incontri non si fanno solo con le persone ma si fanno anche con le cose. Dunque, in un luogo come l’Accademia si può incontrare un quadro, un'installazione, una scenografia, un suono. Ecco cosa intendo per incontri.
So che riconosci Fabio Mauri, Jannis Kounellis e Carmelo Bene come tuoi maestri o tuoi ispiratori. Puoi spiegare perché e in che senso? E soprattutto, quanto e se lo sono ancora oggi.
È proprio così, mi riconosco in questi grandi maestri.
In Fabio Mauri ho appreso la disciplina di coniugare etica ed estetica. Ho capito l’importanza e la pericolosità del linguaggio. Con lui ho affinato quella che potrei chiamare una particolareggiata sensibilità espressiva.
Fabio è stato il maestro più importante. Ho avuto la grande fortuna di collaborare con lui diversi anni, precisamente dal 1995 al 2002, come studente, performer ed infine assistente. Un artista dalle intuizioni geniali. Ricordo di aver preso appunti (di nascosto) anche quando – per telefono - riferiva alla domestica la lista della cosa da comprare per la casa. Era canto-discorsivo Pop a tutti gli effetti.
L’ho salutato in privato facendogli una promessa 21 giorni prima che morisse, e cioè che avrei continuato a prendere appunti anche quando (un giorno) sarebbe stato zitto – per sempre. Mi mancherà moltissimo.
In Jannis Kounellis ho appreso la sua “dolce, bestiale, classicità”. Ho assimilato il distacco culturale dalla volontà di rappresentazione. Ho compreso l’appropriazione di uno spazio fisico e vitale. Ho assimilato l’incontro dialettico tra classico e contemporaneo. L’importanza dell’ombra. La sublimazione di una mensola. La drammaturgica teatralità.
Sono stato suo allievo in un seminario-laboratorio nel 1998 curato da Sergio Risaliti. E’ stato un incontro fondamentale e determinante.
In Carmelo Bene ho appreso come e perché contravvenire tutto l’acquisito del mondo, rigorosamente “a boccaperta”.
Conobbi Carmelo il 25 Gennaio 1996 all’Aquila (in quei giorni portava in scena l’Amlet Suite). Poche parole, intense, ma non senza ustioni.
Un genio unico, immenso ed inconsolabile.
Se sono ancora oggi miei maestri? Senza ombra di dubbio. Sono punti fermi ed imprescindibili nel mio pensiero.
Il bicchiere, presente nel tuo percorso artistico sin dall’inizio e simbolo di … è solo “mezzo vuoto”? E cosa contiene?
Non ho mai considerato il mio bicchiere come simbolo di qualcosa, anzi, esso da sempre, contravviene tutto ciò che è simbolico. E’ una sorta di pagina trasparente a cui delego denunce, inquietudini, angosce, paure, speranze. Come giustamente ha affermato Angela Vettese è “la messa in scena di un’ossessione”.
Jacques Lacan sosteneva che “il significato è un sasso in bocca al significante”. Quest’idea visiva mi piace molto. Ecco, il mio bicchiere potrebbe essere una bocca che mastica un chewing gum di pietra, chissà, con la presunzione lecita di farci un grande big bubble.
Se è solo “mezzo vuoto”? Non saprei, sicuramente non è “mezzo pieno”, ad ogni modo, aspettiamo la fine delle cose per dirlo.
C’è stata una fase della tua vita in cui hai vissuto a Roma. Ora risiedi ad Alanno (Pescara). Ti senti stanziale o piuttosto questa è una nuova e diversa fase?
Questa è una nuova fase. Non so quanto durerà, ma al momento questa collocazione spazio-temporale mi aggrada molto. Mi nascondo - a vista - in una torre medioevale del XIV sec. La sua conformazione circolare ricorda spaventosamente il mio bicchiere rovesciato. La sua pianta tonda ha sedotto e influenzato da sempre la mia instanzialità. Non avere riferimenti ad angolo retto nella stanza mi rassicura molto. Tutto lì dentro è inizio/fine. Mi ci sento come una lancetta dei secondi, orfana in solitudine delle ore e dei minuti.
Baudelaire sosteneva che “chi non sa popolare la propria solitudine, nemmeno sa esser solo in mezzo alla folla affaccendata”. Bene, io sono felicemente popolato dentro un bicchiere di pietra capovolto in mezzo ad una campagna sproporzionata, riconoscendo a ragione, che un uomo solo è sempre in cattiva compagnia.
Recentemente, negli ultimi due tre anni, hai avuto un periodo di riflessione, forse di ripensamento del tuo lavoro. Cosa vedi ora all’orizzonte?
Vivo sempre in un periodo di grande riflessione/confusione. Ci sono momenti in cui il lavoro insegue l’idea e momenti in cui l’idea rincorre il lavoro. Questo atteggiamento emerge da ogni singola esecuzione, da quelle riuscite come pure dai fallimenti. I fallimenti sono necessari, se non fondamentali.
Da anni inseguo costantemente la volontà di poter rappresentare il buio dell’incomprensibile. Miro tenacemente a quel “non sapere” batailliano. A quel “Niente” come istante sovrano. Avvicinarsi al buio dell’incomprensibile significa avvicinarsi alla vita. Rincorro tentativi, ma non ci riesco. Purtroppo il “senso” sembra affiorare anche quando non è contemplato.
Attualmente all’orizzonte non vedo nulla, ovvero niente che mi piace. E questa condizione mi rende molto insofferente. Vorrei essere più sereno, ma non lo sono affatto.
Una parte del tuo tempo è dedicata all’insegnamento, all’attività didattica. Ho visto che hai prodotto con i tuoi piccoli alunni eccellenti risultati e quest’anno una mostra. In quale misura questo ti toglie o ti fornisce energie?
Non ho mai creduto molto nell’insegnamento esplicito quanto agli incontri come inclinazione. La libertà di insegnare una certa forma di “libertà” mi da un certa energia.
Ovviamente la libertà nel campo dell’educazione ha molti aspetti e può essere guardata da varie angolazioni. Innanzitutto c’è la libertà di imparare certe cose. Poi c’è la libertà d’opinione. Infine c’è la libertà di imparare a non imparare. La pratica di “dimenticare a memoria” è una attività che incoraggio abitualmente nei miei studenti.
Purtroppo non ho molta fiducia nelle Istituzioni pubbliche e per Istituzioni intendo quelle corporazioni statali dove si simula il falso come imposizione. Dentro la scuola tutto è finto. Nulla a che vedere con ciò che è e/o sarà. Non bisogna credere che i funzionari dei ministeri dell’Istruzione vogliano che i giovani diventino colti. All’opposto, il loro problema è di impartire informazione senza impartire intelligenza.
Per dirla utopicamente con Silvano Agosti mi piacerebbe che alle scuole accadesse quello che giustamente è accaduto ai manicomi. E cioè che tutte le scuole venissero chiuse. Messe fuorilegge. E che ci fossero dei Centri di Salute Culturale (così come invece dei manicomi ci sono dei Centri di Igiene Mentale) nei quali i bambini, i ragazzi e i giovani andrebbero, spinti dalla necessità di imparare, trovando operatori culturali in grado di fornire loro le informazioni giuste sui vari meccanismi/incontri di apprendimento, libri, cinema, computer, sull’uso di biblioteche, di cineteche per accedere ai massimi capolavori dell’arte e così via…
Una delle tue ultime opere parla della perdita dell’identità nel tempo, dopo la morte. Come se i segni che scompaiono dalle nostre lapidi fossero sinonimo di oblio delle nostre vite. So che hai a lungo riflettuto su questo tema che ti scuoteva intimamente e che “realizzarlo” ti ha in parte pacificato. Puoi spiegare meglio? Continuerai a lavorarci?
Questo lavoro che mi persegue da più di 15 anni è una riflessione sulla caducità del tempo e sull’identità bugiarda di tutto ciò che è postumo.
Spesso mi capita di passeggiare per cimiteri e di imbattermi in lapidi senza nomi, portafoto senza foto e portafiori senza fiori. Rifletto su quelle pietre fredde e spoglie dimenticate dalla memoria, rifletto sul ricatto del tempo che sradica e scompone tutto. Lettere e numeri che un periodo testimoniavano identità vissute, dopo una manciata di decenni, si s/fregiano del caso. Vocali, consonanti o numeri si distaccano (per sottrazione) e danno identità a nuovi defunti. Nuovi nomi (sdentati) incorniciati da nuovi vuoti. Codici fiscali drogati da un tempo impaziente di chiudere subito i conti.
Ecco, nelle mie pseudo lapidi ho testimoniato questo.
Se continuerò a lavorarci? Ovviamente, e senza che me ne renda conto. Anche perché è un lavoro in progress che attende solo di chiudere i conti.
Insieme al pessimismo esistenziale che accompagna le tue come molte altre esperienze artistiche, ho notato che nei tuoi lavori ti sei avvicinato e hai inglobato (con le termoformature) anche tematiche sociali: penso all’opera fatta per l’Università di Architettura Valle Giulia a Roma nel 2007 sui venditori ambulanti… Quindi ti senti distante ma dentro questo mondo? Per analizzare o anche per provocare reazioni?
Mi fa rabbia l’ingiustizia sociale, l’intolleranza, la finta solidarietà travestita da buonismo mieloso e tanto altro. I veri nemici della società non sono tanto quelli che la sfruttano o la tiranneggiano, ma soprattutto quelli che la umiliano.
Pasolini in una delle sue ultime interviste affermò che invecchiando stava diventando più allegro, perché aveva meno futuro e quindi meno speranze. Non credeva che a piccole verità parziali. Questa condizione di pseudo-allegria non era altro che la consapevolezza di una disfatta.
Con l’installazione all’Università desideravo ibernare una delle tante ingiuste “verità parziali”. E’ stata la ratificazione di una disfatta. La presa visione di certo tipo di mondo che, ahimè, non mi ha mai escluso.
Detta chiaramente o taciuta consapevolmente la dimensione religiosa mi sembra comunque presente nelle tue opere. Condividi questa lettura?
Sì, ma solo per contraddirla, non per altro. Il mio lavoro cerca di mettere costantemente in cortocircuito la consolazione dogmatica con il ridicolo, la favoletta della credenza senza coscienza con il grottesco, l’illusionismo affascinante del miracolo con il buffo.
Trovo che la fame di spiritualità dovrebbe essere compensata dall’arte e non dalla religione. E per arte non intendo sicuramente quella di committenza. Bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulla differenza che intercorre tra la “Storia dell’Arte” e la “Storia della committenza dell’Arte”, cosa che non farò in questa occasione.
Purtroppo la delirante “menzogna religiosa” penetra e si addentra nella nostra vita pubblica e privata, e la demoralizza. L’esistenza, nella nostra civiltà, di formalità religiose, antiquate e simili in parte a quelle dei tempi preistorici, è pura ciarlataneria.
Ancora oggi sia lo Stato che la Chiesa instillano credenze che un pensiero veramente libero dissolverebbe: ma il credo della Chiesa attecchisce più facilmente in una popolazione completamente analfabeta. Sia la Chiesa sia lo Stato sono nemici del libero pensiero, ma la chiesa è nemica anche dell’istruzione (e sia pure, ora, in maniera surrettizia).
Quando parlo di credenze intendo le opinioni dogmatiche circa problemi sui quali non si conosce la verità. Tutto il male potrebbe naturalmente essere evitato mediante la diffusione dello spirito scientifico, ossia mediante l’abitudine di formare le proprie opinioni fondandosi su prove di fatto, non su pregiudizi.
Credo nel “libero pensiero”, un pensiero che non accetta i dogmi delle religioni tutte. Dissento da ogni religione conosciuta, e spero che ogni forma di credenza religiosa possa un giorno sparire dalla faccia della terra.
Pur essendo disposto ad ammettere che in certi tempi e luoghi essa ha avuto qualche buon effetto, la considero come una forma infantile della ragione umana, appartenente a uno stadio dell’evoluzione dalla quale forse (spero) stiamo uscendo.
Anche se non è difficile prevedere che le religioni organizzate, e più particolarmente la chiesa cattolica, diventeranno sempre più potenti in tutti i paesi capitalistici e non solo, per effetto del più rigoroso controllo che eserciteranno sulla scuola a favore delle classi ricche.
Per dirla con Russel ogni atto religioso compiuto dall’uomo del XXI secolo è una commedia che non ammette scuse, è una farsa sconveniente. E finché gli uomini saranno certi dei loro credi, purtroppo, in nome di essi continueranno a perseguitarsi.
Come ultima domanda vorrei tu mi raccontassi un tuo sogno speciale, o forse, meglio, una speranza possibile.
Non credo più nei sogni. Ho smesso di crederci quando ho capito che addormentarsi serve a poco. Il sogno è illusione, e come tutte le illusioni sono mendaci.
Cosa spero? Desidererei essere più allegro. Cosa che non sono affatto.
Roma, Giugno 2009
* Intervista pubblicata sul catalogo monografico "Postumo al nulla", a cura di Francesco Poli e Massimo Carboni, ed. Lithos, Modena, 2010, pp. 27 - 37.